Fotografia istantanea: come è nata.

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– Ciao e ben ritrovati!
La nascita della fotografia ufficialmente risale al 1839; 7 gennaio 1839 per la precisione, data nel quale il politico e studioso François Jean Dominique Arago, eletto nel 1830, illustrò all’Accademia di Francia i dettagli della fotografia così come la concepiva Louis Mandé Daguerre. Si trattava della Dagherrotipia, invenzione di Daguerre, per la quale gli venne addirittura riconosciuto un vitalizio di 6.000 franchi, e il riconoscimento come “padre ufficiale della fotografia”.
Inoltre, a Londra, il 14 agosto del 1839, egli brevettò il “suo” apparecchio fotografico, e al contempo rese noto anche l’esatto procedimento, e sfruttando la sua abilità commerciale, o di marketing come si direbbe oggi, fece in modo che solo ogni apparecchio autenticato da lui personalmente rispondesse ai requisiti fotografici… Ovviamente era una trovata commerciale, e fece sì che si accapparrasse una buona parte dei facoltosi acquirenti.
Ma subito dopo il suo passo, anche altri sperimentatori, pionieri delle tecniche fotografiche, passarono all’attacco; il 17 agosto venne presentato a Parigi un’altra versione di apparecchio per la dagherrotipia, realizzato dai fratelli Susse, oltrettuto meno costosa dell’apparecchio di Daguerre.
Il 19 agosto, venne reso noto ufficialmente il procedimento della Dagherrotipia, Talbot risponde proteggendo la sua tecnica fotogenica con un brevetto francese ed esponendo, a Birmingham, 93 disegni fotogenici.
A Torino, Enrico Jest, dopo aver tradotto il manuale d’uso scritto da Daguerre, avvia la produzione dei primi apparecchi fotografici italiani e contribuendo alla formazione di altri laboratori dedicati alla produzione di camere per la dagherrotipia.
Quindi possiamo considerare l’anno 1839 come l’anno della fotografia.
Ovviamente i primi apparecchi permettevano soltanto foto in studio, o di paesaggi, sia per i problemi legati alle emulsioni, le quali andavano usate entro tempi molto brevi, sia per le lunghe esposizioni occorrenti, anche dovuto al fatto che le lenti avevano mediamente una luminosità di massimo f11-f16.
Fu anche per questo che si cercarono soluzioni alternative alla dagherrotipia, sia per l’impossibilità di replicare le immagini, sia per abbassare i tempi di posa e usare gli apparecchi anche per il fotogiornalismo.
William H. Fox Talbot cercava in ogni modo di abbassare i tempi di esposizione, e allo stesso tempo di ottenere delle immagini riproducibili da uno stesso negativo. Riuscì nel suo intento anche se le sue immagini avevano una resa inferiore alle immagini del dagherrotipo; la calotipia o talbotipia è un procedimento fotografico per lo sviluppo di immagini riproducibili con la tecnica del negativo / positivo. Messo a punto da Talbot, addirittura qualche fonte cita il 1835, venne comunicato alla Royal Society successivamente a quello sviluppato da Daguerre, nel 1839. Venne brevettato nel 1841.
Il nome calotipia è composto dalle parole greche kalos, bello, e typos, stampa; era conosciuto anche come talbotipia o disegno fotogenico, specialmente nei suoi sviluppi iniziali.
Talbot attraverso svariate prove approdò anche alla carta trattata con sali d’argento, la quale esposta alla luce anche per brevi periodi, restituiva un’immagine ma in negativo; Talbot allora ebbe l’idea di rifotografare il negativo, e riuscì a ottenere la prima foto in positivo su carta.
Ormai il passo era segnato, ma bisognava far uscire la fotografia dagli “Atelier” dei fotografi, veri e propri luoghi frequantati dalle persone più agiate, poichè erano le sole che potevano permettersi il lusso di farsi ritrarre.
L’inglese Frederick Scott Archer, scultore e calotipista, rese noto il procedimento al collodio umido: una lastra di vetro era spalmata di collodio sensibilizzato con nitrato d’argento e il risultato era un negativo su vetro più facile da stampare per contatto rispetto ai negativi di carta. Inoltre la qualità del collodio umido era superiore a quella della calotipia e la sensibilità paragonabile a quella del dagherrotipo. D’altra parte il fotografo era obbligato a dotarsi di una tenda per poter preparare le lastre subito prima dell’esposizione, quando si allontanava dallo studio, ma questa difficoltà non spaventò i protofotografi che si dotarono di camere oscure portatili di varie forme, dalla tenda smontabile al carro trainato da cavalli; questo permise una democratizzazione della fotografia.
Molti fotografi però abbinarono la calotipia con la camera oscura portatile, costruendosi una cassetta la quale aveva all’inizio due maniche nere a tenuta di luce, e una volta che vi si infilavano le braccia, avevano la possibilità di manipolare la carta fotografica (precedentemente sensibilizzata) e posizionarla opportunamente per avere la fotografia “istantanea”.
Ovviamente dopo dovevano rifotografare il negativo per poter consegnare al cliente la stampa su carta finale.
Questo tipo di camere fotografiche a sviluppo istantaneo, si diffusero soprattutto tra i fotografi di strada, o ambulanti, che viaggiando nei diversi paesi, contribuirono alla diffusione della fotografia.
I nomi delle fotocamere sono tra i più vari, chiamate Minutero in Spagna e Argentina, Afghan nelle regioni dell’Afghanistan, Praga ecc…
Le differenze sono poi nel dispositivo di messa a fuoco, che può essere interno o esterno; nel fuoco esterno è l’obiettivo collegato con un soffietto alla camera a muoversi, mentre nelle camere a fuoco interno, è il vetro smerigliato e il supporto carta a muoversi all’interno della camera.
Poi un’altra differenza riguarda la posizione della manica a tenuta di luce; nelle camere spagnole e argentine si trova nella parte posteriore, mentre nelle afghane si trova nella parete laterale, solitamente la destra.
Qui sotto un poster con il riassunto per immagini delle diverse fotocamere.
Con questo si conclude questa parte diciamo teorica sulle camere a sviluppo istantaneo.
Grazie della partecipazione.

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